Anche l’edizione numero due di Ci Si Vede in Rete sta giungendo a termine. E lo sta facendo “in grande”, “scomodando” l’Apocalisse. È su questo criterio tematico che si è interrogato il Festival Biblico, proponendo un programma di oltre 150 eventi che quest’anno ha coinvolto le città e le diocesi di Vicenza, Verona, Padova, Rovigo, Vittorio Veneto, Treviso – e Alba nella formula del fuori festival – e 21 città nelle province delle prime quattro, dal 5 al 29 maggio scorsi. E non è finita qui. Tre giorni dopo l’ultimo incontro di Ci Si Vede in Rete, in programma mercoledì 15 giugno, torna il Festival Biblico in villeggiatura: il 18 e 19 giugno un’esperienza dal vivo che porta i partecipanti alla scoperta di aree interne e spesso considerate marginali del Veneto, accompagnati da riflessioni su un libro di profezia e rivelazione. Affronteremo il tema sotto molteplici punti di vista, nella nostra diretta online, con Roberta Rocelli, direttrice generale del Festival Biblico, e con Pietro Pisarra, giornalista e sociologo.
ROBERTA ROCELLI
L’Apocalisse di Giovanni, un testo di profezia e di rivelazione con cui si chiude la Bibbia. Perché la scelta è andata su questo libro, per la 18esima edizione del Festival?
Abbiamo scelto il Libro dell’Apocalisse come criterio tematico per questa 18esima edizione per 3 motivi.
Dapprima per una casualità, nei mesi in cui eravamo alla ricerca, nel tempo di studio e osservazione dei tempi per capire di cosa fosse opportuno parlare al Biblico: ci siamo imbattuti nelle parole dell’esegeta francese Paul Beauchamp, eccole:
‘la letteratura apocalittica nasce per aiutare a sopportare l’insopportabile. Nasce cioè in momenti di estrema crisi per portare un messaggio di speranza […]’.
Si è aperto un varco, la strada da percorrere con la consapevolezza di tempi che ci trascinano senza direzione. Abbiamo scelto lo specifico e ingarbugliato libro di Apocalisse decisi a spiegarne la portata umana e culturale, adatta a questi tempi insopportabili.
Poi, per evitare di ritrovarci tra le mani, a distanza di mesi, un tema scaduto, travolto dalle costanti mutazioni del dibattito, e persino dalla noia con cui trattiamo certi argomenti. All’epoca ci parve che la scelta di un libro biblico, anziché di un tema, potesse evitare il livellamento di interesse verso l’edizione che stavamo costruendo.
Infine, l’adozione del libro di Apocalisse ci ha permesso di trattare nel dettaglio alcune questioni contemporanee che ci sono sembrate necessarie:
a) Un nuovo senso del presente e del futuro;
b) Il “mistero” come parte integrante della vita umana che sfugge ad ogni tentativo di imbrigliamento e controllo;
c) “katechon”: la forza che trattiene, la tensione costante che partecipa sia al bene che al male;
d) La vittoria dell’Agnello, ovvero la forza della mitezza.
Si è soliti, nell’immaginario comune, associare l’Apocalisse al dramma, alle catastrofi, a sconvolgimenti, alla paura. Ma come andrebbe interpretato, in realtà? Cosa “nasconde”, ma neanche tanto, dentro e dietro di sé?
Apocalisse suggerisce catastrofi e drammi, proprio perché, nella sua accezione linguistica, nel gergo quotidiano, ha assunto questo significato sia reale che simbolico.
Ma Apocalisse, biblicamente intesa, vuol dire svelamento, rivelazione, qualcosa che aiuta a riconoscere i segni dei tempi, ci permette di capire meglio, anche in virtù dell’abbondante simbolismo utilizzato.
Nel libro di Apocalisse si svolge un processo di maturazione che, con lo svolgersi di alcune scene, ripete, sottolinea precisi concetti: invita a perseverare, ad una resistenze pacifica, mostra le ambivalenze, i chiaroscuri che ci abitano, esprime una promessa perché dice chiaramente che il male è stato vinto ma ancora serve del tempo per contrastarlo, celebra, è infatti una liturgia pasquale, e, infine, pone sul trono l’Agnello, dunque la mitezza, una dote, uno stile che oggi fa da contraltare a certa arroganza.
Insomma, Apocalisse può offrirci parole utili per dare un nome a questo tempo, descriverlo per poterci dare una spiegazione. Per l’appunto, per renderlo meno insopportabile.
PIETRO PISARRA
Prof. Pisarra, come va letta l’Apocalisse? Spesso considerata sinonimo di catastrofe cosmica, come va invece avvicinata e interpretata?
Occorre accostarsi all’Apocalisse, come a ogni altro libro della Bibbia, con la consapevolezza che esso viene da un mondo a noi lontano, da un un universo di simboli che nel corso dei secoli sono stati decifrati e interpretati in maniera spesso contraddittoria e che, tuttavia, hanno conservato tutta la loro forza di suggestione.
Non c’è nulla di peggio di una lettura letterale o naïve. O forse sì: una lettura che cerca a ogni costo il significato “altro” e che si avvita su sé stessa passando da un’allegoria all’altra, in una spirale senza fine.
Ecco: il fondamentalismo “letteralista” e l’allegorismo spinto sono le due trappole che la critica storica, la filologia e l’esegesi biblica ci aiutano a superare.
Ogni lettore attento del testo biblico sa che l’Apocalisse non è un catalogo di catastrofi e che esso è invece un annuncio di speranza, fondato sulla “rivelazione” (significato primo della parola “apocalisse”) di Gesù Cristo, Signore del cosmo e della storia. È un libro di resistenza nel momento della prova, con la fiducia che il male e la morte saranno sconfitti.
Ma i pregiudizi o i malintesi sono duri a morire e basta aprire il giornale per rendersi conto di quanto sia difficile ormai dissociare l’Apocalisse dal racconto di sciagure e catastrofi. E di quanto sia comodo ricorrere a quella parolina magica (“apocalisse”, appunto) per dare maggiore enfasi ai tanti drammi prodotti dalla stoltezza degli uomini.
In un suo approfondimento parlava dell’Apocalisse come di un dramma in cui vanno in scena la vita e la morte, il potere dei tiranni e la capacità di resistenza dei poveri, dei reietti, dei deboli. È per questo che possiamo considerarlo quanto mai attuale?
Sì, l’Apocalisse è un libro per questo tempo, per ogni tempo. Non parla soltanto di ciò che è avvenuto, ma di ciò che accade ogni giorno e che accadrà. Ma con un orizzonte aperto: Babilonia sarà sconfitta e nella Gerusalemme celeste non ci saranno più il buio e la notte.
È un libro attuale perché parla di “noi” e del dramma della storia, rivalutando la dimensione dell’attesa: un’attesa che non può essere passiva o consolatoria a buon mercato, ma che richiede pazienza, tenacia, impegno per la giustizia, resistenza al male, qualità che per l’autore del testo giovanneo sono racchiuse nella parola “upomoné”, parola tradotta a volte con “sopportazione”, ma che è più vicina al significato, appunto, di “resistenza”.