Nei precedenti appuntamenti della nostra rubrica “Ci Si Vede in Rete” abbiamo compreso, attraverso le voci dei numerosi ospiti, il reale valore dell’operato degli Enti del Terzo settore. Un settore che, a dispetto del numero che lo identifica, in realtà potrebbe essere indicato come “Primo” per gli infiniti ambiti in cui opera (dall’assistenza alle persone vulnerabili e con disabilità alla tutela dell’ambiente, dai servizi sanitari e socio-assistenziali all’animazione, dalla promozione culturale e sportiva alla gestione di servizi di welfare istituzionale come per la tutela del bene comune e la salvaguardia dei diritti negati) e per gli interessi che soddisfa.
Con Alessandro Lombardi*, Direttore generale del Terzo settore e della Responsabilità sociale delle imprese, e con Stefano Zamagni**, Economista e accademico italiano, lunedì 2 maggio andremo a scoprire le sfaccettature di un Terzo settore che si sta muovendo tra riforme e produttività.
* nei ruoli del Ministero del lavoro e delle politiche sociali dal 1996, prima come funzionario e poi, a partire dal 2011, come dirigente, ricopre dal 2016 l’incarico di direttore generale del Terzo settore e della responsabilità sociale delle imprese: in tale veste ha contribuito alla stesura dei decreti legislativi attuativi della riforma del Terzo settore e cura l’elaborazione dei successivi atti di normazione secondaria di completamento della riforma stessa. Esperto in materia di contabilità di Stato e degli Enti locali, diritto del terzo settore, programmazione strategica e finanziaria, contrattualistica pubblica, diritto amministrativo, immigrazione, programmi di finanziamento dell’UE, politica ed economia internazionale. È stato componente del collegio sindacale di enti previdenziali ed ha altresì svolto attività di docenza presso l’Università europea di Roma, la Pontificia Università Lateranense, l’Università cattolica del Sacro Cuore e la LUISS.
** ex Presidente dell’Agenzia per il terzo settore, apprezzato in tutto il mondo per i suoi studi in materia di economia sociale. Dal 27 marzo 2019 è presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali.
ALESSANDRO LOMBARDI
[Le considerazioni contenute nel presente testo sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza]
Partiamo dalle basi: cosa significa per un Ente del Terzo Settore (ETS) essere iscritto al RUNTS? Che “valore” ha questo strumento?
In primo luogo dobbiamo dire che non esiste ETS senza l’iscrizione al RUNTS, nel senso che un’organizzazione può essere considerata legittimamente facente parte del Terzo settore solo se iscritta al RUNTS. Viene quindi in evidenza la principale caratteristica del RUNTS: l’iscrizione attribuisce all’ente la qualifica di ETS. In tal senso, pertanto, il RUNTS ci dice quali sono gli ETS. L’iscrizione al RUNTS presuppone che l’ente si sia dato un’organizzazione rispondente alle norme inderogabili del Codice, svolga in via esclusiva o prevalente un’attività di interesse generale, non abbia scopo lucrativo e persegua finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. Dall’iscrizione al RUNTS scaturiscono un serie di obblighi legati principalmente all’aggiornamento dei documenti e delle informazioni presenti nel RUNTS, al fine di renderli sempre attuali a beneficio della generalità dei cittadini che consultano il RUNTS. Per altro verso, l’iscrizione al RUNTS comporta l’accesso alle norme fiscali di vantaggio previste per il Terzo settore, l’accesso ai finanziamenti pubblici previsti per il Terzo settore, la legittimazione a collaborare con la pubblica amministrazione, la possibilità di ottenere in comodato gratuito, per lo svolgimento delle proprie attività statutarie, immobili pubblici inutilizzati. Bisogna però fare attenzione al pericolo di una lettura riduzionistica del RUNTS, che vede in esso un complesso di regole da rispettare, per cui si è pienamente in linea con la riforma attraverso l’adempimento formale di tali regole. Questa lettura deve essere smentita sotto due diversi profili: il primo, perché essa porta con sé il pregiudizio che il Codice produca esclusivamente oneri amministrativi che finiscono per gravare enormemente soprattutto sugli enti di piccole dimensioni, distogliendoli dallo svolgimento delle proprie attività di interesse generale. Non a caso ho utilizzato il termine pregiudizio, perché il Codice ha tenuto in considerazione proprio le realtà più piccole, alleggerendole di numerosi obblighi. In secondo luogo, perché questa lettura non coglie la reale portata del RUNTS, come strumento di qualificazione del Terzo settore. Gli enti iscritti al RUNTS sono riconosciuti dai cittadini e dalla P.A. come portatori dell’interesse generale, sono i soggetti con i quali la P.A. può co-programmare e co-progettare; sono i soggetti ai quali il cittadino può destinare il 5 per mille ed effettuare erogazioni liberali beneficiando di particolari agevolazioni fiscali. La trasparenza, intesa come conoscibilità da parte dei cittadini della struttura, dell’attività, degli aspetti economici dell’ETS, assicurata dal RUNTS, serve a rinsaldare il legame fiduciario fra l’ETS e il cittadino.
Quale sfida si nasconde – ma neanche troppo – dietro la riforma del Terzo settore?
La riforma del Terzo settore è uno dei fattori che possono contribuire alla modernizzazione del nostro Paese, che non può prescindere dall’apporto di energie, mezzi, idee, uomini che il Terzo settore è capace di mettere in campo. Siamo di fronte ad una società sempre più complessa, come conseguenza soprattutto dell’evoluzione tecnologica e digitale, ma al contempo più fragile, perché ciascuno di noi si può trovare ai margini di questa società, per ragioni economiche, ma anche per ragioni diverse, attinenti all’età, alla condizione familiare, alle conoscenze, ecc. In questa prospettiva, la riforma persegue chiaramente un fine di promozione del Terzo settore, in termini di creazione delle precondizioni giuridiche affinché il Terzo settore possa crescere autonomamente sia in termini di capacità di auto-organizzarsi, sia in termini di capacità di implementare lo svolgimento delle attività di interesse generale. La riforma, al contempo, chiama tutte le componenti della società a un salto culturale: ciascun ente del Terzo settore deve essere in grado di guardare oltre il proprio ambito di azione e sviluppare sinergie con altri enti, creare interazioni in grado di offrire una risposta più efficace ai bisogni del territorio; il Terzo settore non deve più vedersi come un fornitore di servizi verso la pubblica amministrazione, ma come un soggetto chiamato dalla legge ad esercitare una funzione pubblica. La stessa P.A., dal canto suo, non può più considerarsi come l’unico soggetto a rilevare, leggere i bisogni della comunità e a fornire la relativa risposta, ma deve, in questa prospettiva di cura dell’interesse della comunità, saper sviluppare un rapporto paritetico con gli Enti del Terzo settore. Lo stesso RUNTS ci chiama a maturare un diverso approccio culturale: l’ufficio statale e gli uffici regionali devono sviluppare i relativi procedimenti sapendo di operare all’interno di una cornice regolatoria comune, fissata dal Codice, in modo da assicurare l’uniforme applicazione della normativa su tutto il territorio nazionale, a presidio del basilare principio costituzionale della parità di trattamento. Pensiamo inoltre alla straordinaria sfida della trasparenza alla quale sono chiamati gli ETS, proprio attraverso la pubblicazione dei dati depositati nel RUNTS: trasparenza, che, come detto prima, non è fine a sé stessa, ma funzionale al rafforzamento, su basi fiduciarie, del tessuto connettivo della nostra società. Questo afflato riformista deve sempre mantenere salde le radici nell’essenza del Terzo settore, nel suo valore solidaristico, nella promozione della persona e nella cura del bene comune.
STEFANO ZAMAGNI
Stefano Zamagni, dalle sue dichiarazioni emerge spesso il concetto di biodiversità economica, una nozione che il Codice del Terzo settore ha accolto come uno dei suoi pilastri. Come spiega questa espressione, esattamente?
Il concetto di biodiversità economica è un termine coniato nel 1800 e mutuato dal mondo della biologia e della botanica. Indica il bisogno, in natura, di una pluralità di specie animali e vegetali per ottenere risultati armonici. Da qualche decennio il concetto è entrato nella sfera economica e sociale andando a individuare la necessità, nell’economia di mercato, di avere più forme d’impresa, ciascuna delle quali, grazie alla propria specifica identità, permette di raggiungere soluzioni ottimali. Quando si parla di impresa è riduttivo fare riferimento alla sola impresa capitalistica. Impresa è qualsiasi identità che produce valore. E, a ben vedere, la produttività sta anche negli Enti del Terzo settore. Essi vanno intesi come soggetti produttivi, perché – ed è evidente – producono valore per la società tutta.
Si fa un gran parlare di ibridazione tra profit e non profit. Cosa ci dobbiamo aspettare da questo processo? Cosa insegna un’impresa all’altra?
La distinzione tra profit e non profit è stata introdotta in America, non è un concetto prettamente europeo. Nella cultura americana la forma di impresa per eccellenza è da sempre quella for profit. Ma oltreoceano hanno notato, nel secolo scorso, che le imprese for profit “non coprono tutti i buchi”, e così hanno inventato il non profit, che rimane di derivazione profit.
Questa distinzione da noi, però, non vale. I soggetti del Terzo settore nascono storicamente dalla Chiesa, dal movimento operaio, dai sindacati, dalla società civile. Oggi parlare di distinzione tra non profit e profit in Italia non è corretto. Dobbiamo parlare di biodiversità: esistono, come dicevo in precedenza, diverse creazioni di valore, tutte ugualmente importanti. L’ibridazione c’è già dal 2015, quando l’Italia ha introdotto la figura della Società benefit (ne esistono 1900, in Italia, ad oggi).
Abbiamo, così: imprese tradizionali di tipo capitalistico, cooperative sociali, Società benefit. Queste ultime, in particolare, sono imprese che perseguono un duplice obiettivo: quello di profitto e quello di natura sociale. Che senso sta dietro a questo doppio fine? Alla presa di consapevolezza – da parte di molte imprese di tipo capitalistico – che, per ragioni etiche o culturali o anche economiche, quella forma originaria oggi non è più funzionale. Si rendono conto che non possono andare avanti con un modello di sviluppo che distrugge l’ambiente, aumenta le disuguaglianze sociali o il livello di infelicità. E così agiscono secondo una nuova ecologia sociale ed economica.